Sento forte un grido che gli altri non sentono: urla una voce che mi invade, stringendomi in una morsa le membra e il cuore. Sembra il pianto di un bimbo che soffre, sembra il grido di un uomo che cade, ma è il mio urlo: mi invade il cuore, ma nessuno lo sente. Non ho più urlato da quella sera, non so nemmeno se ho più parlato: sembra che il mio cuore si sia tolto dal torace. Ho anima e corpo distaccati e distanti, eppure soffro. Soffro di un dolore che non è fisico e che la gente fatica a capire, ma dentro di me c’è una ferita più grande di qualunque ferita corporea.

Era un venerdì tardo pomeriggio e Monica aveva appuntamento in un locale del centro, per il classico aperitivo. Di corsa, con le scarpe con i tacchi che usava al lavoro, era andata a prendere l’auto al parcheggio, mentre cercava nella borsa il cellulare con l’intento di chiamare quanto prima la sua amica, per avvertirla che avrebbe tardato di qualche minuto. Prima del cellulare, però, Monica trovò le chiavi della macchina, quindi si decise a salire: Simona avrebbe potuto attendere. Accendendo distrattamente la macchina, le sembrò di sentire uno sfiato, tolse le chiavi dal quadro, le inserì nuovamente, le girò e…nessun segno di vita. Pur non sapendo come comportarsi né cosa fare, tirò la leva per l’apertura del cofano e scese benedicendo l’inizio del week end con un: “Cazzo”.
“Prego signorina?”, le si avvicinò Carlo, un ragazzo avvenente e sconosciuto.
“Mi scusi, ma sembra che la mia auto non abbia intenzione di farmi cominciare questo fine settimana”, disse Monica, ferma davanti a quel cervello meccanico del motore.
“Posso?”, domandò Carlo, facendosi spazio di fianco a lei.
“Se ne capisce qualcosa…”. Cedendo immediatamente il posto davanti al cofano, Monica aprì la portiera passeggero per cercare nuovamente il cellulare nella borsa e avvertire, stavolta, che il ritardo non sarebbe stato di qualche minuto. Mentre Monica spiegava all’amica l’accaduto, Carlo si destreggiava tra cofano e quadro comandi, dando l’idea di qualcuno che sembrasse davvero intendersene. Poi, ad un certo punto, si allontanò dall’auto di Monica:
“Ma dove—ciao, ci sentiamo, scusa”, disse parlando al telefono e interrompendo la chiamata. “Beh, ci rinuncia?”, chiese in direzione di Carlo. Lui non rispose, mentre lei continuò con un “Ehi, posso almeno sapere che cosa devo fare?”. Poi chiuse di forza il cofano e nel frattempo si accorse che Carlo era tornato con dei cavi:
“Dovrebbe essere più delicata, sa?”, le chiese, andando a riaprire il cofano. “Comunque credo sia la batteria scarica, ora avvicino la mia macchina e carichiamo”. Le spiegò.
Monica rimase zitta e attese il momento pratico dell’esecuzione della carica:
“Vedi – posso darti del tu, vero? – le macchine sono come i cuori delle persone…se non ricevono affetto da troppo tempo devo essere ricaricate”, le disse.
“Quantomeno la loro ricarica è veloce e pratica”.
“Anche il cuore di una persona può essere ricaricato velocemente, basta trovare i cavi giusti”.
“E dove potrebbero essere?”, chiese lei, guardandolo fisso negli occhi, con un sorriso ammiccante.
“Forse nella macchina di uno sconosciuto”.

Fu il primo loro incontro, poi si frequentarono un paio di sere: appuntamenti romantici, ma non un bacio o una carezza, solo parole allusive, risate e lunghe passeggiate. Poi una sera, Carlo chiese a Monica di accompagnarlo in un locale e lei accettò. Salirono nella macchina di Carlo, mentre lui le disse che sarebbe stata una sorpresa e che doveva tenere gli occhi chiusi: lei li chiuse e si mise le mani davanti:
“Non basta…sei curiosa e sono certo che spieresti: metti questa” e le diede una fascia nera. Monica lo guardò sorpresa e stava per dirgli qualcosa, ma lui le mise un dito davanti alla bocca, facendo cenno di non parlare:
“Ma – “, disse comunque Monica.
“Devi stare zitta, hai capito o non capisci un cazzo?”, le disse lui, alterandosi. Gli occhi di Monica si fecero freddi e inquisitori:
“Stai scherzando?”, gli chiese, dolcemente.
“Stai zitta, stronza”, la interruppe lui.
Urla, gemiti, lacrime, mani: lei che voleva scendere dalla macchina, lui che la costringeva a stare dentro. Lei che si dimenava, lui che le prendeva i polsi e glieli stringeva contro il sedile. Poi le sue mani, sporche di una violenza inaudita, sul corpo fragile di lei. Le sue labbra grosse come un abisso nero, che le percorrevano il corpo. L’intera forza che lei metteva nel dimenarsi veniva contrastata dall’istinto sessuale di quell’uomo. Scese con le mani sul bacino di Monica, le aprì i pantaloni. Lei urlò, tanto da farsi venire il mal di gola e da sentire perdere il fiato. Lui la picchiò, forte, sul viso, sulle braccia; le diede un pugno in pancia e poi continuò nell’abitacolo di quella macchina a macchiare l’anima di Monica:

Quelle sue mani e quelle sue parole: la cattiveria su di me. Urla il mio cuore e brucia il mio corpo: sono troppo sporca per poter tornare ad essere la donna che ero.

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