“Voglio confessarti una cosa.”
“Cosa?”
“Sssst!!!”
“Perché?”
“Perché nessuno deve sentire.”
“Ma non può sentirci nessuno qua!”
“Non mi fido.”
“Di chi? Di me?”
“Ma no, ovvio che di te mi fido ma…”
“Ma…cosa?”
“E’ imbarazzante.”
“Non ti capisco.”
“Come no? Mi vergogno.”
“Non dovresti, con me.”
“Lo so. Però, è colpa mia. Sono io.”
“Che cosa è colpa tua? Che ti vergogni?”
Sentimmo un rumore. Il silenzio si ruppe. Era arrivata un automobile che aveva parcheggiato lì, proprio a pochi passi dalla spiaggia. Lo riconobbi subito: era un turista. Uno delle nostre parti non avrebbe mai indossato quel cappello di paglia così strambo. Questo mi distrasse dall’ascoltare Monica, dal farmi svelare il suo segreto. Anche Monica sembrò distrarsi, e non me ne parlò più. Mai più. Dopo qualche giorno mi ritornò in mente e per un attimo mi sentii in colpa di non averle più domandato di proseguire. Poi pensai che si trattasse di uno dei soliti suoi scherzi. Spesso Monica si divertiva a farmi incuriosire per giorni e giorni e poi mi svelava il mistero: una pernacchia. Solo una semplice pernacchia. Quanto mi fece arrabbiare la prima volta! Il gioco era durato per settimane intere. Io mi sentivo morire oppressa dalla curiosità. In seguito, non fu più così facile prendersi gioco di me. Ormai ero molto diffidente. Così se ne escogitava sempre una nuova. Ma quella volta il turista l’aveva distratta, e mi salvai. Allora cominciai a sorridere, fra me e me.
Oppure, chissà, voleva raccontarmi uno dei suoi amori. Purtroppo, fino a quel momento accanto a lei erano comparsi ad uno ad uno in fila solo una serie di completi ebeti, o nullafacenti, oppure approfittatori. Pareva quasi si dilettasse a selezionare uomini così scapestrati. Eppure era molto corteggiata, anche da uomini interessanti a volte. Peccato che questi ultimi non le piacevano mai. Così diceva, almeno. Monica adorava trovare uomini impossibili: perché non la desideravano a sufficienza o perché era lei a non desiderarli a sufficienza. In ambedue i casi, l’infatuazione si risolveva in pochi mesi. Con una delusione, ovviamente. Non sembrava possedere il sogno di tutte noi bambine: incontrare un giorno la reincarnazione di nostro padre. Spesso dava l’idea di evitare accuratamente gli uomini che avrebbero potuto farla innamorare.
Svariati mesi dopo – quasi un anno a dire il vero – una sera io e la mia famiglia fummo tutti invitati a casa sua ad una festicciola. Cenammo tutti assieme. Una serata bellissima con un fresco vento di maestrale che scostava delicatamente le tende e il suono dei grilli che faceva da sottofondo. Decidemmo, a fine cena, di gustare del gelato e un po’ di anguria. Allo stesso tempo, un gruppo di noi propose di iniziare una partita di carte. Io mi alzai dal tavolo per aiutare le signore a sparecchiare. Mentre appoggiavo i piatti in cucina, ebbi una sensazione strana.  Per un attimo voltai lo sguardo verso la sala. Guardai mio padre. Il suo sguardo era intriso di astio e rabbia. Mi sembrò disgustato. Si trattò solo di una frazione di secondi e il suo volto tornò normale. Dopo poco mi girai nuovamente per osservarlo ma lui non era più seduto al tavolo. Con indifferenza, attraversai la sala e raggiunsi la veranda. Mio padre fumava il suo sigaro. La fronte era increspata e il sopracciglio destro leggermente alzato: era un’espressione che assumeva sempre quando qualcosa dava lui fastidio.
“Papà! Ma che cosa hai?”
“Niente.”
“Dai papà, ti vedo. Che cosa è successo?”
“Non ora.”
“Qualcuno forse ti ha offeso? Oppure forse non ti diverti?”
“Ma non hai visto?”
“Ero impegnata con i piatti.”
“Nauseante.”
Qualcuno ci chiamò dall’interno affinché rientrassimo frettolosamente onde evitare che il gelato si sciogliesse. La nostra conversazione terminò. Mio padre spense rapidamente il sigaro e tornammo in sala.
Giocammo a carte tutti insieme fino a tarda notte. Fuori il cielo era così stellato. Fu tutto meraviglioso fino a quando lo vidi anche io. Sì lo notai anche io, quello che aveva sconvolto mio padre poche ore prima. Una mano che si avvicina maliziosa. Un movimento, oserei dire, confidenziale. Eseguito senza farci caso, con leggerezza. Sembrava, anzi era, un gesto abituale. E quel dito, quel dito non lo scorderò mai. Sfiorò, anche se rapidamente, il suo capezzolo. Se ci ripenso lo posso vedere a rallentatore e anche con un poco di zoom per quanto mi è rimasto impresso. E Monica rispose con un sorriso gentile, forse un po’ imbarazzato. O forse no. Poi mi lanciò uno sguardo veloce e sfuggevole. Da quell’istante cominciai a  collegare una serie di altri elementi che risalivano anche ad anni prima: sguardi semi amorosi, sorrisi ammiccanti, abbracci di eccessiva intensità. Ecco, non si trattava di uno stupido gioco o scherzo qualsivoglia. Ecco che cosa Monica voleva dire quel giorno. Capii allora la vergogna e la titubanza del suo dire. Compresi finalmente la paura di innamorarsi, l’odio per gli uomini: rappresentavano il timore di rendersi nuovamente vulnerabile. E quel gesto insinuante fu solo la punta di iceberg di un rapporto malato da cui lei non riusciva ad uscire. Di cui lei si sentiva responsabile e colpevole. Mi consolò solo che la tentata confessione potesse significare che si stava rialzando. Dopo tanti anni di silenzio, stava provando a guarire da quell’orribile plagio. Da quel livido.
Ma ora lo so. Ora conosco le parole che voleva pronunciare alla spiaggia.
“Il più vile fra i vili è mio padre”.

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