UNA SERATA NUOVA –

Laura entrò nel bagno trascinando i piedi, aiutandosi con le braccia, riuscì ad accendere la luce dopo aver rovesciato il beautycase, stringeva i denti da sentirseli penetrare nelle gengive per sopportare meglio il dolore. Imprecava dentro di sé per ciò che sapeva sarebbe successo di lì a poco, vide di sfuggita la propria mezza faccia gonfia e violacea nello specchio fratturato, si spogliò aiutandosi a stare in piedi col lavandino, e a un certo punto le scappò un lamento che i denti cercarono di strangolare in gola. Si accasciò sul pavimento, cercava di sostenersi con le braccia e di tenere la faccia sollevata dalle mattonelle. Ancora non ci credeva che stava succedendo questo, di botte ne aveva prese tante da suo marito ma quella sera c’era stata una complicazione, mio Dio, e che complicazione! Se suo marito, uscito un attimo dopo averla pestata, l’avesse vista, di sicuro l’avrebbe picchiata di nuovo solo per il fatto di essere lì in terra a sporcare di sangue il pavimento, per questo si era abituata a curarsi le ferite in silenzio, perché se la sentiva lamentarsi gliene dava delle altre con una scusa qualunque: fai troppo rumore, ti lamenti sempre, mi dai fastidio, ti lagni come una povera troia. I suoi lamenti restavano fra le quattro mura. Prese fuori tutti gli asciugamani dal mobiletto accanto al lavandino e quelli appesi ai muri, li schiaffò nella vasca da bagno mentre i dolori l’accecavano come saette dentro i nervi. Entrò nella vasca e si chinò, a gambe larghe, distanziando le ginocchia e senza mollare la sponda fredda. Era sudata, gocciava intorno agli occhi e i capelli umidi penzolavano attorno alla faccia fino ai capezzoli. Ora non riusciva più a stringere i denti, così come aveva aperto le gambe aprì anche la bocca e i suoi lamenti percorsero ogni centimetro. Quella sera i pugni nello stomaco di suo marito le avevano rotto le acque con un mese di anticipo, ora non c’era più tempo per l’ambulanza, quel bambino traumatizzato dagli scossoni aveva deciso di uscire.
Ricordi di cui non si rendeva conto l’avevano portata a mettersi in quella posizione, l’aveva vista in TV: le donne mongole partorivano così nei secoli passati, da sole, in piedi, aggrappate ai pali della casa, anche Gengis Khan nacque così. Laura perdeva sangue e liquidi, il dolore e gli sforzi le facevano vibrare le articolazioni, i gomiti tremavano, il cranio sembrava sgretolarsi, e mentre sul pancione divenivano più scuri i lividi dei pugni di suo marito il bambino cominciò ad uscire. Non lo vedeva bene da quella posizione, allungò una mano e gli toccò la piccola testina bagnata, uno squizzo di liquido le imbrattò le dita. Il bambino era fuori a metà.
A causa dei colpi di prima la bocca di Laura era mezza piena di sangue che colava dai lati, dentro e fuori dalla vasca, verso il basso insieme al bambino. Un ultimo sforzo, un grido, e il piccolo uscì del tutto, lei riuscì a tenerlo e adagiarlo sugli asciugamani, poi si lasciò cadere indietro, con la sua creatura fra le gambe. Ansimava, Laura, aveva gli occhi sbarrati verso il soffitto, però era viva, le era parso di morire ma adesso si percepiva lì presente. Il bimbo, anzi, la bimba, muoveva i suoi piccoli arti, era stata svegliata bruscamente quella sera, una piccola neonata di sette mesi.
Laura raccolse le forze, si sollevò, la prese in braccio e uscì dalla vasca, con le forbici nel cassetto del mobiletto tagliò il cordone ombelicale, poi la ribaltò e le fece svuotare la gola dal liquido, le diede uno schiaffetto e sentì il suo primo pianto. Era sana.
Laura la strinse al petto, l’abbracciò, e chiuse gli occhi. Si sedette sul pavimento. Accarezzò la sua creatura, il liquido che l’avvolgeva colava fra i suoi seni da latte portandosi via il dolore. Nella sua testa ora c’era una calma silenziosa, profonda, come la spiaggia all’alba, quasi ingenua come la sua bambina. La cullò per qualche minuto, canticchiando una ninna nanna a bassa voce fra le labbra, quasi un sibilo di vento, che la piccola ascoltava direttamente dal suo petto caldo e morbido.
Poi ci fu un risveglio, le venne in mente che suo marito prima o poi sarebbe tornato, allora quel momento di quiete si annullò di colpo e tutti i pensieri di quegli ultimi mesi vennero a galla  insieme, anche quelli che, non sapeva perché, reprimeva costantemente e che l’avevano fatta restare accanto a quell’animale per cinque anni. Un brivido le percorse la schiena al solo pensiero della faccia di quella bambina ridotta come la propria, vide la sua testa gonfia e violacea, sanguinante, che il corpo non la sostiene da tanto che è gonfia di botte mentre alza una manina sperando di toccare qualcosa di vivo che l’accarezzi e non che la colpisca.
In Laura ci fu una vampata di terrore che le diede forza. Improvvisò un fasciatoio sul coperchio del water, pulì la piccolina con gli asciugamani, si pulì a sua volta, raccattò qualche vestito e qualche panno, si vestì, prese la borsetta, raggomitolò in un bozzolo di teli la bambina e scappò via da quella casa, avrebbe chiesto asilo al convento delle suore vicino alla chiesa, non le avrebbero rifiutato un po’ di ospitalità, e poi non le sarebbe restato che scomparire, abbandonare tutto, cambiare identità magari, per tenere lontana sua figlia da quell’essere, e forse per sperare che ci sia qualcosa di meglio nel mondo.

 

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