Ti osservo da giorni e non riesco a volgere lo sguardo altrove, nemmeno quando me lo impongo con fermezza. Presenza ingombrante, non mi lasci per un solo  istante. Sempre insieme: supermercato, ufficio, palestra. Grosso e piatto come sei, senza spessore. A volte ho l’impressione di sentirti respirare, vivo, come la rabbia che ho dentro. Poi, cerco una fonte di luce. Un gioco che ripeto da anni. Studio i dettagli delle tue sfumature cromatiche; indefinite, passano dal blu, al viola, al verde con una naturalezza che mi lascia sgomenta. Di nuovo questa stanza, questa casa e lo spazio tutto intorno diventano troppo angusti. D’improvviso la gola serrata. Aprirò la finestra. Esposto alla luce della luna, vorrei che tu cambiassi aspetto, che mutassi aiutato da quel fascio di luce gentile che illumina le notti di questa Terra che non ho mai smesso di amare. Ma tu resti lì, in tutta la tua bruttezza, come un marchio; estraneo ed indifferente hai fagocitato la mia anima.
Se accetto questo, non sono più niente.
Faccio come per cancellarti ma sei parte di me ormai. Sei quello che mi resta quando lui va via. Il rancore che mi consuma. Ti penso così, come un freddo ed implacabile vento contrario, pronto a spezzarmi le ali quando provo a volare. Felice di congelare attimi di orrore come piccole stalattiti negli anfratti della mia mente. Svetti impertinente sulle mie braccia, sulle mie gambe. Sulla faccia no; quella, non so perché, l’hai sempre risparmiata. Forse non ce la facevi ad imprimerti troppo vicino a due occhi chiari che ti guardavano atterriti e delusi. Così era sulla nuca che ti concentravi, e le mie braccia serrate, nell’intento di respingerti, soccombevano. Tu così eri tranquillo, sicuro che nessuno avrebbe posto domande. Te ne stavi in panciolle sotto la calda lana di una giacca invernale o di un paio di collant neri, troppo neri perché qualcuno si accorgesse della tua presenza.
Molti inverni sono passati. Tu sei ancora qui, anche se mi avevi detto che quella volta sarebbe stata l’ultima. Non hai tenuto fede alla parola data.  Hai cercato di farmi credere che questa fosse la sola realtà possibile. Perché ero e sono io la causa di tutto. Inverni rubati.
Se accetto questo, non sono più niente.
Adesso ho preso una birra dal frigorifero e seduta al tavolo con la testa adagiata sul braccio, ti sfioro con la mia guancia; aumenta la sensazione di dolore ed inizio a fantasticare. Vado per gradi. Immagino una fuga, lontano, altre vite. Poi l’alcool prende il sopravvento e pensieri omicidi mi affollano la testa. Quante volte ho desiderato di svegliarmi sola. Quante, ho voluto che tu ti dissolvessi come polvere. O un incidente, quello sì, più verosimile. Pensavo a quante persone degne di lode se ne andavano in un istante, persone che per bontà avrebbero meritato l’immortalità. Ed allora perché non tu? Tu, che sei una bestia, che non mostri pietà per nessuno, dietro quella facciata di perbenismo che ti sei costruito attorno, con la dovizia di un’ape operaia. Perché non tu, che vivi nella menzogna più grande, e ti ostini a chiamare amore qualcuno che ti trascini dietro come un sacco della spazzatura colmandolo di insulti e nefandezze di ogni sorta? Perché non tu che col tuo agire mi hai rubato la dignità?

L’effetto dell’alcool mi appanna la vista ed ora mi sembra quasi di sognare. Vedo noi due, un letto ed attimi veloci che non appartengono a chi si ama con dolcezza. Sento il tuo respiro crescere ed il tuo liquido caldo scivolare dentro di me. Ma non te l’ho chiesto io. Lo sai che non posso avere un altro figlio. Lo sai che ho subito un intervento un mese fa. Il fibroma, il mioma o come diavolo preferisci chiamarlo. L’utero. Verme, infame; lo sai, rischio una lacerazione. Ma lo stai facendo. L’hai fatto. Sopra di me ti muovi e mi viene da piangere e da vomitare. Ho realizzato. Sono ormai solo un involucro da riempire e percuotere a piacimento.
La bottiglia sul tavolo é vuota; presa dai ricordi non me ne accorgo, muovo il braccio come per versarmi altra birra, non ce n’è più; d’istinto afferro una penna. Spengo le luci, accendo una candela e scrivo in stampatello su un foglio bianco: ”SE ACCETTO QUESTO, NON SONO PIU’ NIENTE”. Accidenti mi dico, fino  ad ora l’avevo solo pensato, ma scrivere, riempire una superficie é diverso, é un’azione. Allora posso farlo, posso essere io a decidere; io a spezzare il cerchio.
L’indomani mattina la cera è tutta squagliata nel piattino e la bottiglia di birra è sempre lì. Esattamente come la mia vita ora, tutta da rimodellare, tutta da reinventare. Questa volta, però, mi ripeto, non saranno parole su un foglio.
Fuori c’è il sole. Chiamo il fabbro, cambio la serratura della porta d’ingresso. Sei fuori. Metto la tua roba dentro scatoloni incolore. Sei nudo. Te lo comunico, freddamente; impassibile come un medico patologo che seziona un cadavere. Sei allibito.
Richiudo l’uscio. Gli occhi aperti su una stampa di Gauguin, colori e dettagli che credevo di non riuscire più a cogliere. Ne percepisco la magia, li sento sotto la pelle, dentro di me. La mascella ancora chiusa in una smorfia di dolore ma l’anima già in movimento, ed è come se stessi camminando dentro quel quadro. Una strada di montagna, in salita, sì, ma dritta. Non più cerchi; ripeto accarezzandomi le braccia, non più vuota. Ed una promessa, una sola, per la vita, la mia: mai più “niente”; mai più. Per nessuno.

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Comments are closed.