Sabi era scesa di casa  prima del solito quella mattina. Aveva preso l’ascensore e senza neanche guardare aveva spinto il pulsante T: terra. Doveva correre, sarebbe dovuta passare dal medico a ritirare il referto prima di andare al lavoro. Pochi giorni prima le avevano tolto un neo. Era successo che quel piccolo neo sulla gamba era diventato strano, largo, era cambiato, forse nell’arco di una notte. Non sapeva dirlo con certezza quando fosse accaduto il cambiamento, ma era successo. Eppure quel neo sembrava che fosse sempre davanti ai suoi occhi, un piccolo punto nero sul ginocchio destro. Le sembrava di guardarlo da una vita, quando accavallava le gambe, mentre indossava le scarpe, davanti al computer del suo ufficio, alla mensa, insomma era sempre lì, forse l’unico punto fermo della sua vita. Un’amica l’aveva costretta ad una visita di controllo: “Mi sembra ingrossato, è diverso” le aveva detto Chiara. Eppure a lei non sembrava affatto diverso, forse era successo quello che avviene nella vita: quando le cose le hai tanto vicine, non ti accorgi neanche che mutano. Le avevano detto che bisognava toglierlo per fare una biopsia. La parola “toglierlo” aveva colpito Sabi, non per la preoccupazione dell’esito del referto, ma perché lei, quel neo, quella piccola macchia color nero, l’aveva da quando era una bimba. Era un po’ come separarsi dal pupazzo che ti sei portata dietro nel letto per anni.
Entrò nella stanza del dottore, seduto accanto a lui c’era un ragazzo, alto, esile e chino su sé stesso.
 – “Signora, questo è il Dott. Naffone, è uno specializzando, io devo dirle delle cose molto private, se desidera rimanere da sola con me farei accomodare il dottore fuori dalla studio.
Sabi fece segno di no con la testa, per lei il novello dottorino poteva rimanere, uno o due dottori nella stanza non facevano la differenza. Sabi voleva solo sapere cosa stava per succederle.
“E’ un melanoma, e purtroppo non abbiamo tolto niente del danno che ha provocato, lei avrà poco tempo da vivere….mi dispiace, non mi sento di consigliarle neanche un ciclo chemioterapico…mi dispiace tanto”. Ebbene aveva tutto questo potere quel piccolo punto nero?  Sabi aveva sempre saputo che quel neo era speciale, ma non fino a quel punto, non fino ad ucciderla. Per tutta la vita aveva visto davanti gli occhi la sua morte e non lo aveva mai saputo. La testa le girava, guardò per un attimo gli occhi dello specializzando, e lui abbassò lo sguardo a terra come se fosse il colpevole della tragedia.
Prese un permesso al lavoro per tornare a casa. Pensava e ripensava a cosa e a come poteva raccontare quello che le stava accadendo. “Mamma” pensò, aveva voglia di sentire solo lei.
Quanto è poco tempo da vivere? Mesi, giorni, ore? Prima di aprire il portone del palazzo si voltò di scatto, le parve di essere seguita. Forse stavano già per venirla a prendere. Chiamò l’ascensore, aprì la porta e le piccole due porticine interne: una e due. La seconda però fu bloccata da un’altra mano.
 – “Approfitto e salgo con lei”……disse una voce prima di entrare.
Sabi non capì più nulla quando si accorse che la persona che era con lei in ascensore era lo stesso ragazzo seduto accanto al dottore. Il dott. Naffone aveva poggiato entrambe le mani sui pioli delle porticine interne. Nel mezzo tra il secondo e il terzo piano, l’uomo fece uno scatto e aprì entrambe le porticine e l’ascensore si bloccò sospeso nel vuoto. Sabi non capiva, non capiva più niente di niente.
 – “Siamo rimasti bloccati ?” chiese con il tono di una bambina.
–  “…non proprio, l’ho bloccato io” rispose l’uomo.
 – “Perché ?” sibilò Sabi
 – “Perché ho bisogno di parlarle….”
 – “Di cosa?”
 – “Di lei, del suo tempo….del suo poco tempo”
 – “Quanto ne ho ancora di tempo ?”
 – “Forse un mese, forse meno”
 – “Perché mi dice questo, perché in questo modo ? ”
 – “ Non c’è altro modo per dirlo, e io non avrò altra occasione per farlo?”
 – “Per fare cosa?”
 – “Per alleviare il suo dolore…..provocandone un altro, vedrà, non sentirà nulla in confronto a quello che ha provato questa mattina”
Poi, la luce interna dell’ascensore si spense, e divenne tutto nero, come quel piccolo neo.
Lui le afferrò i fianchi, Sabi provò a piangere, a urlare, ma non le uscì nemmeno un suono dalla bocca, né una lacrima dai suoi occhi. Intrappolata in quel buco nero, sospeso nel vuoto chiuse gli occhi, strinse le labbra più forte che poteva e si lasciò stuprare da quel vile.
Lui richiuse le porte, si riaccese la luce e fece ripartire l’ascensore verso terra.
Sabi era accasciata in un angolo con i vestiti strappati e il rimmel nero che le colava sul viso.
 – “Perché?” disse
 – “Perché io sono un medico, e salvo la gente e ora ti ho salvato, ti ho appena regalato un motivo per voler morire” le rispose.

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