Avevo diciassette anni e mangiavo barbabietole e patate lessate – condite con il sale, quando andava bene – quasi tutti i giorni. Mamma le andava a comprare al mercato in città se c’erano i soldi, le rubava quando non ce n’erano. A casa non vedevamo l’ora che arrivasse il nostro compleanno, perché la mamma metteva sempre i soldi da parte per comprarci le scarpe nuove. In periferia, dove stavamo noi, qualche volta capitava che un camion scaricasse spazzatura utile alle piccole cose di ogni giorno: tazze, stracci, pentole, una volta persino un materasso.
Non credo di aver mai mangiato carne, finché sono rimasta a Lublino.

Poi è arrivato lui.

Vendeva amore. E’ arrivato con dolci e pane, e ci ha regalato dell’acqua pulita che si poteva bere. Parlava un inglese da straniero: lo parlava aspirando tutte le iniziali e pronunciando tutte le “t” in maniera secca, sorda. Quando rideva, il suo volto diventava pieno e sodo; la sua voce baritonale riempiva rumorosamente la nostra piccola cucina unta e polverosa. Parlava con mio padre e mia madre ripetendo le parole “money”, “Italy” e “beautiful”. Poi guardava me e mia sorella più grande e ci carezzava la testa, seguendo la lunghezza dei nostri capelli fin giù la schiena. Il suo modo di fare era caloroso, entusiasta. Aveva delle mani sicure e grandi. Grandi.

Siamo partite di mattina con il buio e la brina che ci intirizzivano nei movimenti. Abbiamo preso il treno insieme a lui alle 5,30 dalla stazione di Lublino e abbiamo cominciato un lungo viaggio attraverso mezza Europa. A qualche stazione, ogni tanto, lui si alzava e si affacciava dal finestrino, facendo dei segnali ad altre ragazze che salivano sul treno e venivano a sedersi nel nostro vagone.
Era di nuovo quasi notte quando siamo scese a Milano. Non ci era ancora molto chiaro cosa dovessimo fare; sapevamo soltanto che avremmo potuto presto mandare dei soldi alla nostra famiglia.

Lui ci portò in una grande casa dai mobili lucidi e neri e con i lampadari con i pendagli in quasi tutte le stanze. Ci mostrò i nostri letti e i nostri bagni: ognuna di quelle stanze avrebbe potuto essere un appartamento intero, giù da noi in Polonia. I corridoi erano illuminati a giorno e c’erano dei quadri bellissimi alla parete; decorazioni rosse e oro lungo i battiscopa.
La prima notte fu lunga; lunga e silenziosa. Io e mia sorella dormimmo nello stesso letto; grande, a due piazze, morbido; dal copriletto in pelo. Un sogno. Eravamo disorientate, stupite, piacevolmente interdette; non capivamo cosa ci avrebbero chiesto in cambio.

Anche la seconda notte fu lunga; lunga ed atroce. Durante il giorno fummo prese ed istruite: una ad una siamo rimaste sole in una stanza con l’uomo sorridente e caloroso, che stavolta però non sorrideva. Ci insegnò a distribuire l’amore. Ce lo insegnò su di lui, una ad una, sul suo corpo grosso e grigio, senza sorridere, senza entusiasmo; sui nostri corpi, con quelle sue mani grandi e il volto pieno e arrossato. Ci spiegò che ci avrebbe dato dei soldi per ogni uomo che noi avremmo amato, o che avremmo illuso di amare; ci disse che ci avrebbe protetto finché avessimo dispensato amore a chi ce lo avesse chiesto.
Poi arrivarono altri uomini, verso sera. Arrivarono alla spicciolata, quasi tutti vestiti in nero. Noi li aspettavamo sedute sui divani, vestite di lustrini e nastri, di cinghie e bottoni.
Fui avvicinata da un uomo sui sessant’anni, dal sorriso sdentato e il mento pronunciato. Era in giacca e cravatta ma aveva uno sgradevole odore di sudore, probabilmente al termine di una giornata di lavoro. Cercava di parlarmi e di rompere il ghiaccio, ma in italiano non capivo che una sola parola, “amore”. Poi cominciò a toccarmi; mi assalì un imprevisto senso di nausea. Oggetto di cera tra le sue mani: le istruzioni erano state chiare. All’inizio fu cauto; poi cominciò a scaldarsi e mi fece capire che voleva lo portassi nella mia stanza.
Qui non fu più uomo, non più giacca e cravatta; non più sorriso né tono affabile, ma irruenza, scompostezza, insulto. Diventò dolore. Quando si rivestì ed uscì dalla mia stanza, rimasi tra le lenzuola umide in posizione fetale, chiusa sul mio sgomento, stesa sul mio sangue.
La mia prima volta l’avevo immaginata diversa.
Mia sorella mi venne a cercare dopo pochi minuti. Il trucco sbavato, i lunghi capelli scomposti. Mi abbracciò, mi aiutò a rivestirmi, mi incoraggiò. “Dobbiamo ricominciare, cercare qualcun’altro”, mi disse, “se scopre che ci siamo fermate ci picchia”.

Così è stato per tre anni. I nostri familiari non hanno mai saputo di cosa sono macchiati i soldi che inviamo a casa. Si sono trasferiti in un quartiere migliore, e i nostri due fratellini hanno dei vestiti nuovi.
Non so come faranno, da oggi in poi. Non so come farò.

Sono arrivati in sei; hanno fatto irruzione questa mattina. Sono entrati improvvisamente in tutte le stanze in cerca di un capro espiatorio e di un colpevole mentre tutte dormivamo stanche, sbattute, amare.
Lo hanno trovato nel suo studio, mentre contava i soldi; noi siamo scese in vestaglia, spaventate e sollevate insieme, terrorizzate e confuse. Capivamo cosa stava accadendo ed anche cosa sarebbe stato di noi: non sapevamo se ridere o piangere, ce ne stavamo in corridoio stringendoci l’una all’altra. E stavamo a guardare.
Lui è stato strattonato, bloccato, abbrancato: trascinato via. Ce l’hanno trascinato via, il nostro mecenate dell’amore.

 

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