Mani violente.
Mani che cercano. Mani affannose.
E quella mente che non c’è. Quel cervello che non esiste. E quella donna che si divincola e non riesce a liberarsi da quella morsa. Da quella stretta.
Nuda. Abbandonata su quel selciato ruvido. Lasciata lì per ore. Lacrime agli occhi. Shock totale.
E quel ricordo terribile che non andrà più via. Che non si potrà lavare sotto l’acqua. Perché quella a differenza delle altre è una macchia che resta.
E quella donna che si troverà in difficoltà a stare con un altro uomo. Che vedrà in ognuno il sogghigno di quel mostro.
Oltre  quella violenza il più delle volte resta anche qualcos’altro.
Quel nocciolo. Quel seme che man mano nasce dentro di te. Quel qualcuno che puoi chiamare solo tuo figlio. Perché non è vostro. Ma è semplicemente tuo. E quel figlio non potrà essere chiamato bastardo. Perché non è un cane. Ma è solo il frutto di un rapporto sbagliato.
Di un amore non richiesto.
E a volte quella madre che si pone la domanda: tenerlo o no?
Perché è difficile per la madre rivedere in quegli occhi di bambino l’espressione di quell’uomo  che le ha rovinato la vita. Il padre. Che chissà dove sarà. Perso forse in qualche altra gonna.
Perché l’uomo violento non si ferma mai. Perché vive di quella violenza incessante, che muore dentro di sé.
E allora non chiamiamolo padre. Ma semplicemente carogna.

Un vetro rigato. Un frigo senza cibo. Un rubinetto senza acqua.
Un amore mancato. Un amore sperato.

Quella notizia lanciata al telegiornale da quel giornalista poco attento. Nessuna enfasi, ma parole che scorrono in fretta e si annullano nelle menti indifferenti. Una donna, violentata un anno fa, trovata morta in riva al Tevere. Gli inquirenti del caso ipotizzano un suicidio.
Il movente: il passato. Quel passato troppo forte. Troppo resistente alle intemperie. Un fardello grande da portare avanti. Lei ha lottato contro se stessa. Contro i suoi ricordi. Contro quella cicatrice. E più la guardava, più  sentiva scorrere dentro di sé la vergogna. Si sentiva sporca. Come un panno non lavato. Bagnato di sangue. Grumi troppo intensi. Non commestibili.
E quell’uomo rimane impassibile. Fermo a guardare quel ponte. Sospeso.
Quello sguardo riflesso in quel vuoto. Quell’acqua che rispecchia il male. Quel volto deforme.
Un albero che sposta il vento. Quel vento che fa piangere. Che alza la polvere. Grida vendetta.

Quell’uomo non sente quel pianto. Non sente quel tonfo. Non vede l’acqua che muove quei cerchi in superficie. Non si domanda che vita ha vissuto lei.
O in realtà se l’ha vissuta.
Quell’uomo non aspetta una condanna da parte degli altri. La sta ancora scontando. Sì, dietro le sbarre del suo ego . E’ rimasto intrappolato lì circa un anno fa. Quando quel cuore si separò dal suo cervello, se ne andò per una strada diversa lasciando posto alla irrazionalità, al desiderio fisico prettamente edonistico.

L’uomo si allontana. Se ne va. Corre sempre più veloce in mezzo alla folla. Ora, sembra proprio un puntino distante mille miglia. Rapito e soggiogato dai propri sbagli. Ma l’uomo crudele non piange mai. Soffoca il pianto nell’ira del mondo.
I poliziotti indagheranno per quanto ancora? Due, tre, quattro anni. O forse di più. Ma non riusciranno mai a scoprire il vero assassino. Perché non è stata lei ad uccidersi. Perché non si è gettata volutamente da quel ponte. 
Lui ha provato a guardarla negli occhi. Lei ha cercato di soffocare il rancore.
Ma il male si è riproposto nuovamente.

Quelle pietre laggiù sono ancora macchiate di sangue. Le tenebre stanno per arrivare ai piedi scalzi della notte.

E quell’uomo sta alzando ora un grido al cielo. Un cielo che però non lo ascolta.

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