Asciugherei volentieri il tuo pianto,se solo qualche volta una lacrima scendesse da quegli occhi spenti.
Non ti ho mai sentita dare sfogo ad un lamento,eppure è così chiaro che qualcosa hai da reclamare alla vita. Di averti lasciata sola troppo presto,forse,di averti strappato i sogni ancor prima che ti rendessi conto di averne,di avere annientato la bambina che ora ti porti dentro morta,offrendoti in cambio una maschera di donna di cui tu stessa hai terrore.
 
Lui è l’uomo di tua madre,l’ultimo di un caotico avvicendarsi,antico come la tua vita. Non è la natura che lo ha pregato di generarti,non per tua scelta condivide il tuo stesso tetto,un destino curioso quanto imperfetto lo ha fatto padre di una figlia non sua,una figlia che lui disprezza come la peggiore fra le maledizioni.
Lui è l’uomo che allo scadere di ogni mese mi paga un discreto stipendio,frutto del lavoro che da qualche tempo presto come bar-man nel suo pub,un locale sgualcito che da sull’unica piazza di un borgo dimenticato da qualsivoglia forma di divinità,popolato da un pugno di pensionati stanchi e qualche famiglia poco incline alle uscite serali,una bettola in cui le ore si trascinano lente e portano addosso,oltre all’inconfondibile puzzo di legno e sanpietrini bagnati dalla pioggia,l’odore del tempo buttato via,ore che se non altro mi concedono la possibilità di dedicarmi a quella che per me è ormai divenuta una necessità:scrivere.
Stavo scrivendo anche la prima volta che ti ho vista,dopo un paio di settimane dalla mia assunzione:scrivevo un resoconto comico dell’ennesima giornata tediosa,fredda,lontana dall’università che con i suoi esami incombeva rapida sulle settimane a venire,raccontavo dei piccoli giochetti che avevo preso ad inventare per sopperire alle noia e al senso di inutilità che quei pomeriggi autunnali mi lasciavano addosso,e mi stavo,tutto sommato,divertendo. Eppure, appena la porta si è spalancata e la tua figura ha riempito il mio campo visivo,ho afferrato il mio minuscolo taccuino nero,e con la penna  ho scritto TERRORE,ANSIA,DILANIATA,ho scritto RASSEGNAZIONE, ho scritto GIUSTIZIA,con un grande punto interrogativo a fianco.
Ho scritto queste parole in un violento stampatello rosso,con un tale impeto che io stessa sono rimasta qualche secondo attonita,a fissare quei graffi purpurei tracciati sulla carta.
 
Non ti avevo mai vista prima e nessuno mi aveva mai rivelato la tua esistenza,quindi non chiedermi il senso di quello che ho scritto,mi sono convinta che loro stesse abbiano guidato prepotenti la mia mano chiusa,fino a che tutte non fossero state partorite,quasi temessero di non essere afferrate in tempo,e se davvero un significato esisteva,di certo trapelava interamente dalla tua persona:i capelli erano scompigliati dal vento,anche se visibilmente appesantiti dalla troppa umidità,la sciarpa fradicia d’acqua e di nebbia ed il cappotto malconcio,allacciato alla bell’e meglio. Tu ansimavi,pur cercando di trattenere quella fretta esasperata che ti aveva fatto sbattere la porta entrando ,e ti avrei scambiata per un’universitaria reduce dall’aver perso l’ultimo bus della sera,se le mani tremanti,l’espressione smarrita che andava via via ammorbidendosi,i piedi irrequieti,non tradissero ritmicamente i tuoi tredici anni malcelati.
Era evidente che volevi domandarmi qualcosa,ma forse imbarazzata per l’entrata goffa,o per la mia presenza sconosciuta,indugiavi di fronte al bancone deserto,e non facevi altro che spostare lo sguardo a destra e a sinistra,aspettando un’ispirazione che tardava ad arrivare.
Avrei fatto qualsiasi cosa per toglierti dall’impaccio in cui eri sprofondata,perchè nonostante fossi una sconosciuta qualunque,emanavi un tale senso di impotenza da suscitare in me la tenerezza più spietata, mi sembrava in quel momento di doverti difendere da qualcosa di terribile,che incombeva su di te senza appello.
Ti ho chiesto se ti serviva aiuto,se avevi bisogno di qualcosa,lì per lì non mi è uscito niente di più intelligente…  Immediatamente hai abbozzato un sorriso pallido,fragile,ma di autentico sollievo,così hai preso coraggio e , senza nemmeno presentarti,hai chiesto notizie di tua madre e del tuo padre costretto. Mi sono resa conto da sola di chi tu fossi,e dopo aver esaudito la tua richiesta(non avevo visto né l’uno né l’altra per l’intera giornata)ti ho invitata a bere una tazza di tè,per riprenderti e riscaldarti,ma tu eri in ritardo sulla tabella di marcia di faccende domestiche che ogni giorno eri chiamata a rispettare,e per nulla al mondo avresti sprecato quei minuti preziosi che ti separavano dall’arrivo dei tuoi genitori,dalla confessione dell’imperdonabile ritardo che avevi avuto.
Proprio non mi riusciva di comprendere il motivo di tanta premura,fino a che la macchina del tuo padre costretto non ha parcheggiato,due persone sono scese e senza salutare hanno percorso le scale che portano al vostro appartamento,al piano superiore,dove da una buona mezz’ora ti sentivo affaccendarti in modo esageratamente frenetico.
Quando ho sentito la porta chiudersi,quando lui si è accorto che avevi tralasciato qualcosa,sulla tua tabella di marcia,tutto è accaduto rapidamente; non credo ti abbia nemmeno sfiorata,ma le parole che ti ha vomitato addosso,alla maniera in cui si vomita un pasto avariato,quelle mi rimarranno dentro per sempre,e ancora oggi mi provocano una vertigine tagliente,anche se a me sono giunte solo come un’eco lontana.
 
E’ difficile dare voce a questa scoperta devastante,non so come spiegare che la prima volta che ti ho conosciuta,con te ho conosciuto il mondo ingiusto che ti tiene in
gabbia,da cui ti lasci aggredire impassibile ,e che abita ogni ora di ogni tuo giorno,da quell’autunno lontano ad oggi,mentre ti vedo morire ad ogni battere di ciglia.
Ancora adesso,quando lui ti guarda,diventi una palla impacciata,balbetti,le cose di cadono di mano,tieni gli occhi incollati a terra e le rare volte in cui prendi coraggio e dici qualcosa,lo fai in una tonalità quasi impercettibile .Per lo più cerchi di vivere nascosta a casa,sottraendoti al ruolo di bersaglio dorato in cui sei costretta ogni volta che ti mostri in pubblico,con lui che ti scaglia addosso insulti e minacce privi di qualsiasi fondamento e del tutto fuori luogo,regolarmente legittimate dall’orda di avventori ignoranti e brilli che di solito affolla il bar nelle prime ore della sera,che considera insulti, umiliazioni, mortificazioni, l’unica forma di educazione davvero efficace, così  i maltrattamenti diventano il metodo educativo più efficace,e la violenza,se non porta lividi o tumefazioni,o comunque segni evidenti sulla pelle,non viene neppure riconosciuta,non è violenza,e nemmeno qualcosa che le assomigli.
 
In ogni tua espressione si manifesta l’atteggiamento della vittima,eppure in te c’è qualche cosa di rivoluzionario:nei rari momenti in cui vivi una tregua,e lui rimane comunque nei paraggi,effondi tutta te stessa in una faticosa opera di provocazione,una campagna volta ad attirare la sua attenzione e scatenare la sua ira,dando di te un’immagine totalmente nuova,opposta e spaventosa. Sembra che tu abbia bisogno della sua violenza,che tu non veda l’ora di sentire quelle parole per me insopportabili graffiarti i timpani,fissare i suoi occhi su di te e permettergli di rifiutarti un’altra volta,ancora,liberandoti di lui il prima possibile. Penso sia il tuo metodo di esercitare un disperato controllo nel tempo e nello spazio,su quello che è ormai diventato un terribile appuntamento quotidiano,un tentativo che ti da almeno l’illusione di tracciare una linea tra i momenti di vita che ancora ti appartengono e i momenti di morte latente che a lui sono consacrati.
 
Ti chiederai spesso il motivo di questo rifiuto,come io faccio a mia volta,sicuramente troppo spesso finirai per trovare in te stessa una qualche responsabilità che serva a giustificare almeno in parte l’odio assoluto che ogni tuo gesto ispira nel tuo padre costretto,ma sbagli,te lo grido sottovoce ogni volta che vedo la rassegnazione prendere il sopravvento,ogni volta che pesno a te come a un  mucchietto immobile di dolore rancido.
Quante cose vorrei fare per te,aiutarti a capire che lui è vile davvero,se dalle ceneri della tua dignità riesce a costruire il castello delle sue fragili certezzer,e ogni giorno paziente annienta l’entusiasmo della tua adolescenza,seppellisce la stima che faticosamente tenti di costruire a mani nude,piano piano.
Vorrei spiegarti che la colpa non è tua che il suo odio nasce dalla sua profonda ignoranza,o forse da un trascorso ingiusto quanto il tuo,dalla gelosia che l’amore di tua madre per te suscita in lui,vorrei scrollarti dal torpore in cui sopravvivi,congelata nella tua muta disperazione,e mi odio per non avere alcun influenza su di te.
Questa storia,la tua storia,non è una storia di redenzione,o di giustizia ritrovata,è la storia una violenza perpetrata nel più assoluto consenso,una violenza che servirà a garantire altra violenza per il futuro,è una storia che ti scrivo nonostante tu giò la conosca,meglio di me che ho provato a raccontarne un piccolo pezzo.
 
Te la regalo oggi,che è il giorno del tuo compleanno,perchè tu possa renderti conto che accanto a te esistono molte più alleate di quante tu creda,e che nel tuo dolore non sei sola. Guardati intorno,di tanto in tanto,e convinciti se puoi che essere felici non è una colpa,ma un diritto irrevocabile,innegabile,e tu hai il diritto di crescere libera,indipendente dalla ragnatela di soprusi che ti è stata cucita addosso.
Leggi queste righe quante volte vorrai e quando ti sentirai pronta,prendi parte alla vita che fino ad oggi ti è stata negata,e chiedi pure a me di ospitarti quando ti sembrerà di esserti smarrita,già da tempo ho fatto posto nel mio disordine per accogliere la tua timida anima errante,per asciugare il tuo pianto soffocato.

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Comments are closed.