Ancora non ci credo; quando il dottore me l’ha comunicato, con quella voce così impersonale, mi è crollato il mondo addosso; appena fuori dal suo studio mi si sono paralizzate le gambe e ha iniziato a battermi fortissimo il cuore.

In questo stato di confusione, tutta sudata e con la vista quasi annebbiata ho trovato miracolosamente una panchina e mi ci sono scaraventata praticamente sopra; e ad un tratto, mi sono accorta che non stavo più seduta sulla panchina dell’ospedale, ma sul pavimento della casa dove sono cresciuta; dalla porta della cucina appena socchiusa scorgo uno spicchio di luce, il resto della stanza è immerso nell’ombra; si sentono due persone discutere animatamente ed io non posso fare altro che ascoltare e trattenere il respiro, col triste presagio di quello che sta per accadere; eccole, dapprima urla soffocate, poi vere e proprie grida, anche se mai di aiuto: sono sempre grida che implorano perdono.

Ed ecco puntuale anche la redenzione: schiaffi, pugni e calci così forti da scuotere il mondo tutt’intorno; eppure il mondo sembra non accorgersi di niente. Ci sono solo io, quattro anni e mezzo, immobile e senza la forza di reagire, a trattenere il respiro con tutti i muscoli del corpo contratti, sperando che questa non sia la volta buona. Vorrei poter dire di esserne uscita illesa da quella famiglia, ma ciò che mi ha lasciato mio padre va ben sotto la pelle, dentro la carne; è nelle mie vene, dove scorre sangue malato di quell’odio che ho covato per anni, e che da troppo tempo è soffocato dal senso di colpa per non averla saputa salvare.

Un giorno le ha spezzato semplicemente il collo, dopo l’ennesima lite furiosa, sempre a senso unico, e dopo l’ennesima ed ultima redenzione. Oggi, trent’ anni dopo, eccomi qui, con gli stessi muscoli del corpo uniti in una disperata contrazione, ad accorgermi che questa è la mia occasione di voltare pagina, la mia volta buona. Sono incinta di otto settimane; gravida di un uomo che differisce da mio padre solo nell’aspetto e nel nome, ma non nel modo di essere brutale, spietato, crudele. L’ho sposato sette anni fa, consapevole del fatto che non avesse un buon carattere, ma con la speranza e la testarda convinzione che avrei potuto modificare la storia, combattere la sua violenza col mio amore; quanto presto amaramente ho dovuto rendermi conto di essere in errore. Prima lo stupore, e la stupida illusione che si trattasse di isolati episodi; poi è subentrata la vergogna. È più facile confidare alla migliore amica un tradimento, piuttosto che dirle che l’uomo che ami ti mette addosso le mani dalla mattina alla sera, sempre più spesso col passare del tempo, addossandoti colpe che non immaginavi nemmeno di avere; non c’è rispetto in quelle botte, e non c’è amore.

Ma questa notizia, questa meravigliosa buona nuova, è stata come una doccia fredda che mi ha fatto svegliare da questo letargo che non era vita, non la mia almeno. Non tornerò a casa da lui; io e la creatura che aspetto, e che non vedo l’ora di conoscere, meritiamo di più; ora l’ho capito.

Melissa Facchini – Castelgoffredo (MN)

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