Non so più che cosa inventare per catturare l’attenzione dei ragazzi. Senza dire una parola, ho appeso due cartelli sulle pareti laterali della classe. A destra c’è scritto COLPEVOLE, a sinistra INNOCENTE. Improvvisamente si fa silenzio.
– Colpevole o innocente di che cosa?
– Se mi ascoltate, vi racconto una storia. Poi, potrete decidere se posizionarvi da una parte o dall’altra.
I quindici rimasti in aula accettano.
– Premetto che la situazione è inventata, ma potrebbe anche essere vera. Una ragazza si apparta con un uomo in auto. Dopo un po’, mentre stanno facendo i fatti loro, arriva il fidanzato (o il marito o il compagno) della ragazza. Il tipo sulla macchina si dà alla fuga mentre i due si mettono a litigare. Dalle parole passano alle mani, spunta anche un coltello e nella lotta la ragazza ferisce mortalmente il suo fidanzato.
– Fidanzato, ma che termine antiquato, prof !?
– Il suo compagno, il suo uomo, insomma vedete voi. 
– L’uomo muore. La donna, secondo voi, è colpevole o innocente? Andate a mettervi vicino al cartello che corrisponde alla vostra opinione.
Risultato: una vittoria schiacciante dei colpevolisti: ben tredici.
Solo due, due femmine, sono disposte ad assolvere: Martina sostenendo che probabilmente il suo compagno non riusciva a soddisfarla e quindi lei ha fatto bene sia a cercarsene un altro che a farlo fuori; Giorgia, invece, non vuole proprio esprimere un parere.
– Ma prof –dice- come si fa a giudicare così. Mancano un mucchio di elementi!
Rafforzo la posizione di Giorgia, sottolineando il fatto che siamo intrisi di volontà di giudizio, che non esitiamo a condannare ancor prima di capire.
      –  Mi sembra che occorra un supplemento di indagine. Provate a pensare che questa donna sia una poveraccia sfruttata dal suo uomo, che la mena e la fa prostituire, la tiene prigioniera e ovviamente intasca tutti i soldi. Sfuggita al controllo del protettore, si è procurata un cliente per recuperare un po’ di denaro nell’unico modo che conosce. La condannereste ancora?

Tre anni dopo.
– Devo chiamarla ancora prof o ce l’ha fatta a diventare prete?
Riconosco la voce di Giorgia molto prima del suo viso. E’ precocemente invecchiata, ha tutti i denti rovinati, troppe rughe.
– No, non sono diventato prete. Ho cambiato idea.
– S’è trovato una donna, vero?
– No, questo no. E’ che mi è passata la vocazione: non sono più convinto.
– Vorrei parlarle. Andiamo a bere qualcosa.
Nel tavolino più appartato del bar Mamba, Giorgia mi racconta che cosa le è capitato.
– Se lo ricorda il test che ci ha fatto in classe?
– Il test? Quale test?
– La storiella della donna che uccide il marito, che la fa battere. E ci ha chiesto se volevamo assolverla o condannarla.
– Sì, sì, mi ricordo.
– Ecco, a me è capitata una cosa del genere. Finita la scuola, mentre andavo all’Università, ho cominciato a farmi, ma a farmi di brutto. Stavo con un tipo e quando sono finiti i soldi, lui ha cominciato a farmi battere, per comprare la roba. Per lui, soprattutto. Per me solo qualche schizzo. Un giorno, un po’ perché ero fuori, un po’ perché non ce la facevo più, mentre lui dormiva, gli ho tirato un paio di coltellate… No, non l’ho ucciso. Solo qualche ferita profonda da cui si è ripreso presto. Però sono finita dentro. Tra una balla e l’altra ho fatto quasi due anni.
– E quando sei uscita, che cosa hai fatto?
– Non sapevo dove andare. Non sapevo da chi andare. E sono tornata da lui. E ho ricominciato come prima, forse peggio. Mi trattava come la sua serva. Al mattino invece di portargli la colazione a letto, gli preparavo la dose e lo andavo a svegliare.
– E poi?
– E poi non ce l’ho più fatta. Una volta gliela ho tagliata male e lui è morto di overdose, come un cane.
– Come si meritava.
– Forse sì, non lo so.
Rimaniamo un silenzio per alcuni minuti.
– Che cosa è successo dopo?
– Niente. La polizia mi ha interrogato, ma mi ha lasciata andare. Credo che tutti abbiano chiuso gli occhi: non hanno voluto vedere altro. E sono rimasta libera e…innocente.
– Come vivi adesso?
– Curo una vecchia. E’ una poverina, andata con la testa, ha l’Alzheimer. Io le corro dietro, faccio in modo che non si metta in pericolo. Giorno e notte. Sempre. Tranne il giovedì pomeriggio, come oggi, quando c’è sua figlia. Mi hanno dato una mano a trovare questo lavoro e per me va bene. Speriamo che non muoia presto.
Guardo l’orologio: sono quasi le sei. Devo andare in clinica ad imboccare mio padre.
– Adesso devo andare, Giorgia, ma posso lasciarti il mio numero di telefono?
– Certo prof, io le lascio il mio.
– Chiamami pure quando vuoi. Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno.
– Non ho bisogno di niente. Magari la chiamo per fare due chiacchiere.

Mentre aiuto mio padre a mangiare, ricordo quando volevo fare il prete e insegnavo religione alle superiori. Allora cercavo di dimostrare alcuni principi assoluti: che non si deve giudicare, per esempio, oppure che bisogna mettersi nei panni degli altri. Pensavo anche che due o più cose sbagliate non ne fanno mai una giusta. Adesso non ne sono più così convinto.

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