Sono in ritardo di sette minuti. A quest’ora sarei già dovuta  essere a casa. All’una esatta la tavola deve essere apparecchiata, la pasta deve essere pronta, io devo essere pronta.
Accelero il passo, arrivo al portone, faccio le scale di corsa, con il fiatone apro la porta e la richiudo dietro di me.
Dalla fretta appoggio la borsa per terra e non mi tolgo le scarpe.
Vado in cucina e comincio a preparare il pranzo.
Taglio finemente la cipolla e la faccio soffriggere in una padella. Riempio una pentola d’acqua, la metto sul fuoco alto, perché deve bollire velocemente. Butto una scatola di pelati sulla cipolla già dorata.
Mi sposto nella sala da pranzo, stendo la tovaglia, appoggio  bicchieri, piatti e posate sul tavolo. Ritorno in cucina, giro il sugo, salo l’acqua, prendo le ultime cose per finire d’apparecchiare la tavola.
E’ l’una meno dieci. Butto la pasta con il tempo di cottura più breve, sei minuti. Spengo il sugo e mi tolgo le scarpe.
Giro per le stanze, controllando che tutto sia in ordine. Dalla mia borsa tolgo i fogli e i volantini che ho preso poco fa al museo; li nascondo insieme a tutti gli altri, in mezzo alle pagine dell’atlante.
E’ l’una. La tavola è apparecchiata, la pasta è pronta, io sono pronta. Aspetto in piedi che Luca e Martina arrivino.
Eccoli. Martina entra prima di suo padre e va subito in bagno, senza quasi salutarmi. <Cosa le hai fatto?> chiedo. Ma Luca fa finta di non sentirmi e si siede davanti al proprio piatto.
Pranziamo in silenzio. Ogni tanto guardo la faccia della piccola Martina, che tiene gli occhi bassi sulla pasta senza mangiarla. <Mangia, amore > le dico e sento dentro di me una morsa che stringe nervosamente lo stomaco. Gli occhi mi s’appannano di lacrime e Luca mi ride addosso.
Ironizza sulla sensibilità di questa madre.
Si alza e va da Martina. Guardandomi dritto negli occhi le accarezza i capelli, le accarezza una spalla e la porta in salotto.
<No, Luca > sussurro. Non so fare altro.
Quando escono dal salotto la piccola si pulisce la bocca con il dorso della mano e va in bagno. Ha i capelli spettinati e la magliettina infilata al contrario.
Sono arrabbiata. Sono disgustata.
Tocca a me.
Appena siamo da soli nel salotto, Luca mi dà uno schiaffo. Dice che devo piantarla di piangere, che è una cosa ridicola. Dice che se sono ancora in quella casa vuol dire che piace anche a me. Le sue parole mi confondono. Ho paura di quel che sono diventata. Inerme, lascio che Luca prenda il vecchio rampone appeso al muro. Lascio che mi sbottoni la camicia, delicatamente. Lascio che mi colpisca la schiena, con il rampone che conficca le proprie punte nella mia carne. Dolore.
Non voglio urlare, non voglio che Martina senta i miei lamenti. Non guardo più Luca e mi rannicchio a terra.
< Cosa fai…finta di nulla? Non senti niente, mi ignori?> dice Luca. <Ma allora non capisci proprio niente!>
Ho il tempo di girarmi verso di lui per guardarlo in faccia ma poi è un susseguirsi di azioni troppo veloci perché io realizzi cosa effettivamente sta succedendo.

La stanza è buia, non ho punti di riferimento per orientarmi nello spazio. Ho freddo e la schiena mi duole, pulsando velocemente in alcuni punti, che concentrano su di loro tutto il calore corporeo.
Seduta, appoggiata alla parete, con le gambe aderenti al pavimento irregolare, cerco di concentrarmi e di raccogliere le energie necessarie ad alzarmi. Appena muovo le gambe si accende un dolore diffuso in entrambi gli arti, ma senza soffermarmi sui singoli movimenti mi alzo in piedi e rimango appoggiata con il peso di tutto il corpo al muro.
Si apre d’improvviso una porta che lascia entrare della luce arancione.
Un uomo ha acceso i neon e richiuso la porta alle sue spalle. Mi sorride e corre verso di me. Quando ha il viso vicino al mio, un ricordo sfuocato m’invade la vista. Vedo un grosso bicchiere di vetro pieno d’acqua, vedo quest’uomo che mi ficca in bocca delle pillole che sulla mia lingua sono amare. Vedo me stessa che controvoglia bevo un sorso d’acqua. Vedo un vecchio rampone appoggiato per terra. Vedo quest’uomo che mi bacia e che mi prende in braccio. Rivedo il suo viso sul mio, questa volta dolce.
Il ricordo svanisce e si confonde con il presente. L’uomo parla ad alta voce, forse urla, mi costringe con le spalle al muro. Io chiudo gli occhi indolenziti dai neon, non oppongo resistenza ai suoi movimenti. Mi schiaccia il viso contro l’intonaco e l’orecchio impazzisce di dolore.
Sono sempre meno confusa. Qualcosa comincia a prendere forma. Capisco che quest’uomo adesso vuole che io mi inginocchi e capisco che mi ha fatta inginocchiare già altre volte. Capisco che è stato lui a chiudermi qui dentro. Capisco che non ho veramente paura.
Mentre meccanicamente ubbidisco ai suoi voleri, la mente lavora per trovare un appiglio. Mi ritrovo senza avere un passato, non trovo il momento aurorale di tutto questo. Quando è cominciato, come, perché, chi è lui…
Un conato di vomito mi fa abbandonare questi pensieri. Lui immobile parla con voce delusa, dice che faccio proprio schifo, cristo santo, che a momenti gli sbocco sui coglioni. Che a questo punto non sa più come fare a dimostrarmi il suo amore.
Allora mi trascina per il braccio sinistro fino all’angolo.
Mi lascia per terra. Vorrei chiedergli scusa.
Camminando di spalle dice anche che a casa gli manco.
Spegne la luce, apre la porta, io rivedo la luce arancione e poi ancora d’improvviso il buio.

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